Personaggi biblici della speranza
Comunità di San Fermo – Bergamo
14 novembre 2012
Personaggi biblici della speranza
LIDIA MAGGI
È proprio tempo di pensare alla speranza come tema per portare il futuro. Portare un futuro che è chiuso. La chiave di lettura che voglio dare al mio intervento è quella di far vedere come nella Scrittura la speranza non è quel sentimento onirico che in maniera fatalistica si attiva, ma è una passione per domani, una passione che è radicata in scelte strategiche, in una vigilanza, in una resistenza che a volte porta persino a comportamenti eterodossi. Pensate a quando noi preghiamo “sia fatta la tua volontà” nel Padre nostro abbiamo l’idea che dobbiamo affidarci a Dio anche quando ci arrivano le tegole, poi da questo deriva un atteggiamento un po’ fatalista che quando ci capitano le brutte cose della vita diciamo: “è la volontà di Dio”. Chi ci ha fatto credere questo non ha presente il testo biblico perché secondo il testo biblico è Dio che ci invita a fare la sua volontà che è prima di tutto di camminare eretti, pieni di dignità verso il futuro, per cui il primo atteggiamento per aprirsi alla speranza è quello di recuperare una fiducia verso il domani, una fiducia “verso”, “oltre”.
Il termine fiducia è un altro modo per dire la fede. La fede biblica non è una fede di dottrine, un accettare una serie di convenzioni; la fede biblica si manifesta come l’atto di fiducia verso l’altro che irrompe nella tua vita e che ti sostiene a volte con mani forti, più spesso in modo fragile, ma con la convinzione di non essere soli e soprattutto con la convinzione che il cielo non è chiuso. Anche di questo ci parla la scrittura che inizia a parlare in maniera molto fisica, perché la speranza nella scrittura è carne è sangue, la speranza è la possibilità di generare nuove vite, e questa possibilità viene data anche di fronte alla negazione della realtà. Vi siete mai chiesti perché nella scrittura vi sono tante donne sterili? Certo questa sterilità può essere un dato biologico ma è chiaramente un dato teologico; laddove la storia sembra chiusa, laddove la storia non sembra in grado di partorire qualcosa di nuovo ecco che Dio è pronto a prendere ciò che è chiuso rendendo fertile una donna che è già appassita. Il tema della sterilità riguarda tutti i patriarchi: i nostri padri e le nostre madri hanno abitato il rischio continuo di una storia chiusa. È questo che dicono le storie di Sara, di Tamar che non riescono a procreare: non ci raccontano i problemi ginecologici di una donna, ma ci raccontano come ogni generazione rischia di non riuscire ad aprirsi al futuro, di non dare alle generazioni che vengono l’aprirsi alla speranza. E con questo rischio devono lottare fino a forzare la realtà.
Il dato della sterilità non è più semplicemente un dato biologico, ma è un modo attraverso cui la bibbia dice la teologia della storia. La storia non è in astratto, prima di tutto la storia è al plurale, la storia è “toledot” è le “generazioni”; la storia non è un concetto, la storia è partorita, la storia biblica è molto concreta ha a che fare con i ventri gravidi che si schiudono e che permettono alla vita di fluire. La storia non è mai tranquilla, non è mai scontata: nella tradizione biblica infatti molti personaggi attraversano una sterilità che ha bisogno di essere sciolta attraverso l’intervento divino e quando Dio è latitante, attraverso la strategia di chi si ingegna per forzare la storia. Allora, racconti come la vicenda di Sara che desidera tanto un figlio che oltretutto le è stato promesso, il figlio della promessa, sono racconti che mettono a fuoco anche questo aspetto: che a volte alla speranza bisogna attaccarsi con strategie che forzino la realtà che sembra impossibilitata ad aprirsi alla speranza.
Sara è la prima icona in questa scena (Genesi 16-18); Sara è colei che riceve una promessa di fecondità quando ormai è avvizzita, quando non è più in grado di partorire la speranza … e allora si ingegna. La promessa tarda ad arrivare ed ecco che Sara decide di intervenire nella maniera che conosciamo: propone ad Abramo di giacere con la sua schiava e questa schiava sarà in grado di dargli un figlio. E allora di fatto si crea un incidente di percorso nella storia della salvezza, ma un incidente importante perché dice l’audacia ed anche l’irriverenza di questa matriarca che osa sfidare Dio ad anticipare i tempi della speranza, e Dio non è in grado ancora di far sentire la sua ora, l’ora in cui la storia sarà gravida di qualcosa di nuovo. Ma nasce un grande conflitto: anche Agar, ora che è gravida sente di essere abitata da una grande speranza che è la speranza di vedere cambiata la sua posizione, la speranza di non essere più una schiava; l’essere gravida di futuro le restituisce una dignità insperata e non importa se non è ebrea, se non è la padrona, non importa se è solo una schiava ed oltretutto egiziana, lei sente di poter guardare dall’alto in basso e di sfidare la sua padrona. La padrona in realtà è più forte di lei e Agar è costretta alla fuga e nella fuga Agar fa un incontro, nella fuga costringe l’angelo del Signore a venirla a cercare, l’angelo del Signore la cerca e le dice “Agar da dove vieni dove stai andando” e Agar gli racconta il suo dolore e … il Signore le dice (e questo sembra strano) “ritorna a casa, torna dalla tua padrona e sottomettiti a lei”. Agar ritorna: non c’è nessuna possibilità di futuro per lei al di fuori del clan e si sottomette a Sara e darà questo figlio. La vicenda va ancora avanti: questo figlio e Agar saranno cacciati e Dio a questo punto interviene e se ne prende cura personalmente. Agar anticipa la storia di Israele nel deserto; Agar si trova ad essere sotto la diretta responsabilità di Dio. Agar vive l’esperienza che Israele farà nel deserto e sarà nutrita da Dio, e sopratutto si trova a verificare che quanto le è stato promesso: se lei è stata schiava, suo figlio sarà libero come un puledro selvatico, – e non è poco per una schiava.
Allora voglio rendervi attenti che tutte le volte che vi trovate di fronte a donne sterili dovete leggere il problema di un popolo che rischia di vedere la propria storia chiusa. E questo ci richiama al presente. Nichilismo, non futuro, questa esperienza che viviamo nei nostri giorni e che ci fa sentire il futuro come minaccia è un’esperienza già data, già conosciuta nella storia ed è raccontata attraverso quella categoria, che forse non è proprio consona a noi gente moderna, della sterilità.
Insisto su questa categoria perché la speranza è un ventre gravido, la speranza è la pienezza e allora comprendete meglio le parole di quella donna disperata che è Noemi (Libro di Rut). La moglie di Elimelech era andata via insieme ai figli nel paese di Moab – c’era stata una carestia, altro tema legato alla speranza e alla non speranza – e poi la vita l’aveva così segnata che si era trovata vedova e senza figli, con a carico solo due nuore, Ruth e Orpa.
La prima volta che compare nella bibbia la parola speranza è nella bocca di una disperata Noemi che dice a Ruth e Orpa: “ritornatevene a casa, io non ho niente da darvi, sono vuota e se anche ci fosse la speranza che nel mio ventre ci fosse un bambino voi avreste la pazienza di aspettare che cresca per prendere in marito e vedere la sua storia aperta”. Non è un caso che la parola speranza compaia in una donna che così racconta la sua vita nel momento che torna al villaggio e le donne la riconoscono: “non chiamatemi Noemi (=dolcezza), chiamatemi Mara perché la mano di Dio ha reso amari i miei giorni e si è accanito contro di me, io sono partita piena e sono ritornata vuota”. Anche qui non sta soltanto denunciando una situazione biologica: è partita con due figli ritorna vedova e senza figli, ma sta raccontando anche un vuoto esistenziale, sta raccontando anche un vuoto progettuale. Allora vedete che dietro questa categoria c’è molto di più di un problema di maternità perché queste donne sono anche archetipi tipologici; la posta in gioco dietro queste storie è molto più complessa che l’idea della povera donna ebrea che nel contesto patriarcale l’unica possibilità che ha di realizzazione è sfornare figli.
Perché questo ci aiuta anche a capire la nostra storia cristiana quando un Dio è raccontato come colui che fa tre cose impossibili.
La prima cosa impossibile (ma gliela abbiamo visto fare in passato): rende fertile una vecchia, una donna avvizzita viene riaperta alla maternità: Elisabetta. Dio nel vangelo di Luca entra in scena attraverso questo archetipo ed Elisabetta si trova fertile; con anche la parodia di un uomo della speranza che non è in grado di aprirsi alla speranza per cui rimane muto, chiuso; c’è una speranza che non riesce ad essere proclamata.
La seconda cosa che fa questo Dio cui niente è impossibile è che riesce ad aprire il cuore anche ai disperati. Lo racconta ancora il vangelo di Luca: prima ci racconta del giovane ricco che se ne andò perché aveva molti beni e commenta alla fine con le parole di Gesù molto amare che dicono “è più facile per un cammello entrare in una cruna d’ago che per un ricco entrare nel regno di Dio”; ma niente è impossibile a Dio e Luca poi lo dimostra con il gesto della conversione di un ricco, Zaccheo, che addirittura cerca Gesù, restituisce tutti i suoi beni, fa una confessione pubblica… Dio riapre ciò che è chiuso, come il cuore di un ricco.
La terza cosa: Dio non è in grado soltanto ad aprire qualcosa che chiuso perché è troppo tardi, Dio riesce ad aprire qualcosa che è chiuso perché è troppo presto: Maria , non aveva ancora l’età per rimanere incinta, era troppo giovane, era ancora una bambina. Il problema non è che non si fosse ancora accoppiata nell’atto in sé, ma anche se si fosse accoppiata non era ancora in età. Ma niente è impossibile a Dio! Allora attraverso questo archetipo della bambina chiusa che viene aperta da Dio, ti viene raccontato di un Dio che riapre la storia sia quando questa è troppo presto che venga riaperta, sia quando è troppo tardi: per Dio non è mai né troppo presto né troppo tardi e Maria ed Elisabetta sono lì a dimostrarci questa verità della speranza, di una storia che non è chiusa sia nel passato che nel presente che nel futuro perché Dio riapre e rigenera vita anche in tempi disperati.
Ed è bello vedere però che questa intuizione, questo filo rosso sulla teologia della storia, questo di aprire ciò che è chiuso è stato molto frequentato da alcuni personaggi biblici.
E qui entriamo nel compito che mi è stato affidato: prendiamo la storia di Tamar, l’ultima matriarca, la nuora di Giuda (Genesi 38). Tamar è una donna destinata ad essere sepolta viva: ha avuto un marito che ha fatto male agli occhi di Dio ed è morto e poi Giuda (era il figlio di Giuda il primogenito) gli ha dato in sposa il suo secondogenito Onan e non si capisce perché, ma Onan disperdeva il seme. Più che una pratica sessuale c’è di nuovo un problema di rifiutarsi di aprire la vita alle generazioni future. La posta in gioco è alta e anche simbolica: spandere il seme senza che il seme fecondi è nella modernità l’utilizzo irragionevole delle risorse che taglia il futuro alle generazioni che verranno. Allora non è soltanto un atto sessuale, è un modo di stare al mondo che chiude alla vita. E allora qui ci troviamo di fronte ad una donna come Tamar che non ha possibilità di forzare, di aprirsi al futuro e di fatto è una sepolta viva. Le viene fatto un atto di giustizia in una maniera sottile dove lei non ha la possibilità di reclamare giustizia di fronte a Dio “fammi giustizia mio re” perché a un certo punto quando anche Onan muore, Giuda pur avendo un figlio più piccolo, dice: “Tamar torna a casa, quando l’ultimo dei miei figli sarà in età ti richiamerò e tu ti unirai a lui”, ma Tamar si rende conto che questa cosa non succederà. Tamar invece di rimanere sepolta viva, di rimanere nell’oblio, si ingegna in una maniera molto eterodossa, perché si trova ad essere una prostituta, si vela da prostituta. Sente che suo suocero è rimasto vedovo, ha fatto la pezzatura del bestiame, è euforico; allora lei si mette alla porta della città ad attendere questo uomo che ha finito il lavoro: è la stagione della primavera quando la vita deve rifiorire, ma la vita è bloccata perché Tamar è una sepolta viva. Quest’uomo vede questa prostituta, vuole andare con lei, ma non ha i soldi e allora offre dei segni come pegno perché ritornerà e le porterà un capretto, lei prende il sigillo e la sua cinta e si unisce con lui. Poi questa prostituta scompare dalla scena. Giuda ritorna alla sua vita, manda un servo per pagare perché è un uomo d’onore, ma alla porta della città nessuno ha mai visto una prostituta, non c’è mai stata una prostituta. Dopo tre mesi Giuda riceve la notizia che sua nuora che lui aveva dimenticato, che aveva sepolta viva, è incinta, allora Giuda diventa giudice e vuole lapidare questa infedele. E allora c’è la scena madre: Tamar gli manda a dire che il padrone degli oggetti che lei possiede è il padre del bambino. Giuda capisce che lei è stata più giusta di lui. Questo è allora il suo commento: “lasciatela andare perché lei è più giusta di me”. Tamar avrà due figli. Il nome di questi bambini è legato al fatto che uno mette fuori una manina e poi la ritira e l’altro si apre una breccia; allora uno si chiamerà Perez che vuol dire “breccia” perché Tamar è quella che si è aperta una breccia. Il nome di questi bambini allora è legato ad una storia, è una teologia della storia. Tamar è stata colei che è riuscita ad aprire una breccia in una storia destinata ad essere chiusa. Un racconto familiare, di clan, ma anche un racconto di un modo di stare al mondo in un modo che non si rassegna alla disperazione e che si ingegna con molta creatività: Tamar ne ha avuta tanta, fino alla trasgressione e Tamar ha trasgredito. Si è accoppiata con il suocero, che nel linguaggio biblico tocca un tabù, infatti ci viene detto che Giuda non si unì più a lei, infatti è un patriarca fondatore di una delle dodici tribù, non deve avere il suo curriculum macchiato per cui non ha preso in sposa Tamar come avrebbe dovuto fare…
Di storie così ne abbiamo tante! Che cosa dire delle figlie di Lot, noi ridiamo di questa storia delle figlie che fanno ubriacare il padre e a turno giacciono con lui e rimangono incinte di quelli che poi saranno gli Ammoniti e i Moabiti. E ridiamo quando sentiamo Israele raccontare “noi siamo il popolo eletto mentre voi siete nati da un incesto”. Però anche dietro la storia delle due figlie di Lot c’è una storia di donne disperate, una storia di chiusura della vita che viene riaperta con una strategia che addirittura sospende l’etica e addirittura sospende il tabù più terribile: giacere con il padre.
Ricordiamo che cosa è accaduto: c’è stata la distruzione di Sodoma, c’è stata la pietrificazione di una donna che ha voltato le spalle al passato e che è rimasta di sale. Il personaggio della moglie di Lot è interessante anche simbolicamente: ci rendiamo conto che il pietrificarsi è un gesto simbolico: questa donna che guarda dietro la distruzione della città e rimane pietrificata non è in grado di andare oltre, non è in grado di affrontare il domani. Così Lot si ritrova da solo con queste due figlie. E non vivono più nella città, vivono in una grotta: anche simbolicamente la scena è di una grotta che rischia di essere una tomba e queste donne pretendono che sia un utero. Piuttosto che rimanere sepolte vive, piuttosto che la vita si chiuda, le due donne si ingegnano perché la vita si riapra, anche attraverso percorsi inediti e immorali. Sono le nostre madri. Di fatto dalle figlie di Lot nasceranno due popoli importanti, uno di questi darà addirittura un cromosoma al messia. Ruth è moabita, senza Ruth non ci sarebbe stato Gesù, è questo quello che ci racconta Matteo facendoci vedere come a volte questo forzare il presente anche in maniera eterodossa ha qualcosa di salvifico, di creativo; piuttosto che la passività e l’accettazione inerme del non futuro, piuttosto che la paralisi, meglio la trasgressione.
Non sempre le storie di forzare il futuro sono così al limite, ma io volevo ora toccarne qualcuna per far capire quanto sia forte la posta in gioco per il mondo biblico sul tema della speranza e come la speranza ci chiede di mettere in atto tutta una serie di strategie, di creatività e ci richiede anche di affrontare il rischio della trasgressione per il bene del futuro. C’è una priorità, purché la vita non si chiuda tutto è lecito. Ci tengo a dire che è un linguaggio figurato, l’idea è di creare le condizioni e se non ci sono di ricrearsele, di inventarsele perché il domani sia abitato dalla speranza, perché il domani sia fertile perché il domani sia utero e non sia tomba. È come se queste storie ci dicessero, mettendoci delle persone chiuse, che noi non siamo diversi da quelle generazioni e che il rischio di non vedere aperta la storia è un rischio che ha abitato tantissime generazioni, anzi ogni generazione ha dovuto affrontare il rischio di vedere chiusa la propria storia, finiti i propri giorni…
Avete già parlato di Abramo, uomo di speranza, non perché se ne è andato incosciente dietro un Dio che lo chiamava, ma uomo di speranza quando prega per la salvezza di Sodoma: si ostina a credere che in una città malvagia ci siano degli uomini giusti (Genesi 18). Si ostina con tutto sé stesso e non si arrende anche a costo di passare a 40, 30, 10 uomini giusti: è questa la speranza di credere anche contro l’evidenza, che c’è qualcosa di buono che la storia partorisce, di credere che quello che sentiamo come gemiti di morte siano in realtà gemiti di parto. Abramo crede questo, … anche quando si ostina ad aprirsi e accoglie i tre forestieri che vengono da chissà dove e li sfama: si apre e lì la storia si apre con la promessa di Isacco Pur con il riso e tutto quello che comporta.
È un uomo di speranza perché si ostina a pensare che la realtà possa essere trasformata, non è però un uomo di speranza “tutto tondo” è bello anche questo di Abramo, è uomo di speranza con anche momenti di regressione, dove è disperato e cede sua moglie al faraone per scampare la pelle. E allora per questo è icona della fede: soltanto perché ha avuto fiducia in Dio. È questo quello che ci dice la Lettera agli Ebrei: perché si è fidato di Dio è considerato uomo di speranza., ma anche perché si è ostinato a credere che nonostante il male intorno a sé ci fossero ancora dei giusti, ci fosse ancora del bene.
Nella Bibbia ne troviamo tantissime di persone che forzano la speranza. La storia dell’Esodo si fonda proprio nel riuscire a galleggiare nelle acque del caos. Sapete che “arca” in ebraico indica anche “cestino di Noè” ed è chiaro che i narratori biblici stanno sovrapponendo citando e richiamando i racconti, così come Noè è stato portato in salvo sulle acque del caos anche questo bambino è portato in salvo. È interessante che il cestino-arca ed il cestino-bambino ci dicano anche una teologia della storia dove la storia rischia facilmente di sprofondare nel caos e ci vuole molta creatività per tenerla a galla e questo non significa appoggiare i piedi in un luogo sicuro. … Il regno di Dio è rappresentato da queste acque del caos su cui la barca non galleggia, è scossa da tutte le parti e ci sono i passeggeri che urlano “Signore non ti importa niente che periamo?” I testi ci raccontano di questa storia che facilmente rischia di sprofondare, è chi la tiene aperta? L’ingegno umano, l’ingegno laico a cominciare da quelle prime donne, le due levatrici nell’Esodo che con molta creatività trasgrediscono, in questo caso in maniera più etica. Osservate come ricorre la simbologia della storia chiusa, la storia abortita: all’inizio dell’Esodo ricevono l’ordine del faraone di non far nascere i maschi e decidono invece in concerto, sono due e quindi sono già comunità, di disobbedire al faraone e continuano a tenere aperta la porta della vita, a tenere aperto quel legame che lega la generazione di oggi e la generazione futura. A ostinarsi a non chiuderlo, a rifiutarsi di pensare che la storia è chiusa, anche a rischio della propria vita.
Un’altra cosa che ci viene detta da questi forzatori di speranza, che rischiano tutti. Le figlie di Lot hanno rischiato il marchio di incestuose, Sara il marchio di colei che non si è fidata di Dio, Tamar si è prostituita; voglio dire che i forzatori e le forzatrici di futuro sono anche consapevoli che rischiano in prima persona e sono anche pronti a pagare un prezzo. Rischiano Sifra e Pua di essere uccise dal faraone, che di fatto poi le scavalca e deciderà di ammazzare tutti i maschi. Ne sorgono altre di persone, in questo caso sono tutte donne, che cercano di resistere a una storia che possa essere definitivamente chiusa: la figlia del faraone stesso e le sue ancelle, la mamma e la sorella di Mosè: un mondo diverso di intercultura inter-generazionale. Non è un caso: la Bibbia qui ci sta dicendo che per aprire il futuro bisogna mettere in rete le nostre diversità. Qui donne diversissime per religione, per stato sociale, per condizioni, per etnia, per età, per stato, madri e vergini, è tutto un brulicare di donne che tesse una rete, tesse questo cestino che porta in salvo un bambino e con questo bambino porta in salvo un popolo simbolicamente. Questa mamma di Mosè che nasconde un bambino poi lo affida al fiume, la figlia di Mosè che segue il bambino, l’ancella che ode il pianto, la principessa che sente il bambino piangere e chiama le ancelle per tirarlo fuori: è tutto un brulicare di donne che in maniera laica, senza l’intervento divino, mettono insieme strategie per non chiudere il futuro.
Donne che portano la speranza è il tema con cui noi entriamo nel Nuovo Testamento. Maria è forse la prima donna nel NT che forza il futuro, ma non soltanto attraverso la sua esperienza di maternità sorprendente, ma anche nel suo rapporto con Gesù. Nell’episodio di Gesù a Cana (Giovanni 2) Maria si rende conto che non hanno più vino e si rivolge a Gesù chiedendogli di fare qualcosa e lo fa in un modo molto gentile “non hanno più vino” e Gesù risponde con parole molto chiuse “che c’è tra te e me o donna, l’ora mia non è ancora venuta”, ma Maria pretende che se anche l’ora non è ancora venuta, che si anticipino le doglie del parto per cui forza la speranza e lo fa con la sua strategia femminile “fate quello che lui vi dirà” e allora lui si ritrova, suo malgrado quasi senza accorgersene, ad anticipare l’ora. È come se Maria desse a quella gestazione l’oscitocina e gli provoca le doglie del parto ed ecco che Gesù si trova a partorire attraverso questo vino nuovo del regno. È un testo gravido quello di Giovanni come tutto il vangelo di Giovanni. Allora Maria è la prima che osa mettere in pratica quella preghiera che Gesù ha insegnato ai discepoli “venga il tuo regno” e che noi diciamo in maniera passiva “venga il tuo regno, sia fata la tua volontà”. È la volontà del Signore, di quel Dio che rende possibile rendere gravida una dona chiusa, che strappa via un popolo schiavo dall’Egitto, se c’è una volontà di questo Dio è la chiamata alla libertà come primo requisito, stare dritti di fronte a Dio secondo requisito, terzo requisito una vita piena non una vita vuota.
Che dire della donna siro-fenicia, una donna pagana in questo caso, anche lei forza la speranza e lo fa nel superare addirittura i recinti della religione locale (Marco 7,24-30). Lei ha una bambina malata, va da Gesù che è lontano e vuole stare in pace: il desiderio di Gesù è di stare da solo quello di questa donna è di avere sua figlia guarita. La figlia sta morendo, anche questo è simbolico: la figlia significa il futuro, la speranza che si chiude, ed ecco che questa donna va da Gesù, si getta ai suoi piedi e gli chiede di guarire la bambina e Gesù ha parole durissime: “io sono venuto solo per i figli di Israele”, ma questa donna si ostina: “non si può prendere il pane dei figli e darlo ai cani”, se a tavola le briciole cadono dalla mensa i cani hanno diritto di cibarsene. Gesù è colpito da questa sapienza che improvvisamente rivela a sé stesso il suo ruolo: lui non è venuto solo per i figli di Israele perchè la grazia del suo Dio trasborda, apre, fa breccia, erode i confini e Gesù lo intuisce lì per la prima volta attraverso quello che dice la donna. Che cosa sta facendo quella dona se non forzare la speranza, se non aprire qualcosa che è chiuso e certo ne ha un riscontro immediato: la figlia è guarita.
Ma ha fatto un servizio anche alle generazioni future perché ha aiutato questo Dio con noi a pianificare la sua vocazione: questo Dio sarà sempre grato a questa straniera. Questa madre gli ha fatto un discernimento vocazionale e gli ha rivelato qualcosa della sua identità che prima non sapeva e infatti subito il pane viene ridiviso con i pagani, non viene più diviso all’interno del recinto di Israele.
Cosa dire di Maria di Magdala che è lì nel giardino della tomba, si ostina a forzare il Signore a presentarsi alla sua presenza, si ostina a rimanere (Giovanni 20). Nel giorno dopo il sabato Maria corre va alla tomba e la trova vuota, i segni della risurrezione sono là e allora va a chiamare Pietro e il discepolo amato che corrono, vedono e se ne tornano a casa: hanno creduto che il corpo era scomparso e di fatto poi Pietro lo ritroviamo a fare il pescatore… Invece questa donna rimane lì e non se ne va e continua a cercare il corpo e si assistite ad una cosa strana per il NT, quasi ad una Risurrezione in diretta: c’è Maria che piange e chiama per nome il suo amato – in questa scrittura del Cantico fatta per raccontare la Risurrezione –, Gesù è quasi forzato a presentarsi a questa donna che dice “Signore vieni, Signore vieni, Signore vieni” e nel suo dirlo non c’è una ripetizione liturgica tradizionale e basta, c’è tutto un pathos, c’è un creare una breccia e c’è una danza, un movimento, un piangere che però non si paralizza; si volta, si rivolta, non si rassegna ai segni della Risurrezione che non le bastano, vuole vedere Gesù. Io credo che quel Dio pieno di compassione sarà rimasto così colpito dal pathos di questa donna che non ha potuto non presentarsi, non ha potuto non ascoltare quel grido disperato. Il Dio che ascolta il grido disperato così come ha ascoltato il grido di Abele, il grido del popolo schiavo in Egitto, così ascolta quel grido disperato di questa donna che pretende che la terra non sia tomba che sia utero e il Risorto appare a questa donna.
Allora non vi sembra che qui ci siano tutti personaggi che vogliono forzare i tempi della storia, che vogliono dirci che la speranza non è semplicemente affidarsi nelle braccia di Dio senza fare niente, ma la speranza è attivarsi con tutte le proprie forze – per dirla con il linguaggio del Deuteronomio “con tutto il proprio cuore, con tutta la propria anima, con tutta la propria mente” – perché il cielo si schiuda, perché si apra una breccia in questo cielo chiuso e ritorniamo a vivere la vita, perché la nostra vita di nuovo sia gravida e aperta al domani. Però questo tipo di pathos costa anche il farsi carico delle doglie del parto parchè se davvero la speranza è qualcosa che noi dobbiamo partorire e non ci è consegnata così mentre non ce ne accorgiamo, richiede di incarnarsi nei nostri corpi: perciò è anche necessario portare avanti le fatiche di questo parto … ed anche il rischio degli aborti. Proprio perché la speranza l’abbiamo raccontata con questo linguaggio della vita sappiamo che la vita si apre e che qualche volta precipita e fallisce.
La speranza non è un’assicurazione che il domani ci farà, non è una ingenua fiducia contro ogni speranza, ma è lavoro. In inglese le doglie di parto si chiamano “labor”: sentire le doglie del parto come lavoro mi sembra un bell’augurio anche sotto questo aspetto… oggi quando noi preghiamo “dacci oggi il nostro pane quotidiano” nella speranza stiamo proprio dicendo questo “siamo disposti a fare la nostra parte”, a fare il nostro lavoro perché la speranza produca buon pane che nutra, ma concedici la possibilità di fare il nostro lavoro.
In questa direzione dovrebbe andare una riflessione sulla speranza che sia in grado di chiamarci alla nostra responsabilità e a giocarsi in prima persona anche accettando i rischi e soprattutto la nostra creatività. È tempo di essere creativi con la passione, la costanza, i tempi lunghi della gravidanza e sopratutto (gli uomini dicevano il martirio, io userei il tema delle doglie del parto) essere disponibili a trasformare quest’epoca di cordoglio e di lutto in epoca di doglie del parto per sentire la speranza del Regno tra noi.
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